Al giorno d’oggi, sono poche le band a risultare originali nel progressive metal. Molti infatti si limitano a copiare i Dream Theater, e tantissimi si affidano solo alla tecnica, sacrificando però l’espressività, il che genera album freddi e senza sapore.

Per fortuna c’è anche chi riesce ad avere un suono personale: è il caso dei Nefesh di Ancona. Il pregio principale del loro terzo album Contaminations è proprio il genere, un prog metal non convenzionale e con tanti spunti di originalità, come ho scritto nella recensione. Ed è, tra l’altro, il motivo per cui sono rimasto incuriosito dal gruppo, tanto da proporgli quest’intervista. Per il gruppo marchigiano mi ha risposto Luca Lampis, chitarrista fondatore del gruppo, a cui senza altri indugi cedo la parola.

Per prima cosa, vuoi raccontare la storia dei Nefesh ai lettori di Heavy Metal Heaven? 
Luca Lampis: Certo, con l’attuale progetto Nefesh siamo operativi da prima del 2005 ma eravamo senza la voce di Paolo, facevamo pezzi strumentali, poi dal 2005 si è inserito il nostro attuale cantante e da allora abbiamo fatto tre dischi: “Nefesh” pubblicato nel 2006, “Shades and Lights” pubblicato nel 2011 e “Contaminations” pubblicato nel 2014 e ora stiamo preparando il quarto. Nel frattempo abbiamo vinto dei concorsi in Italia tramite cui siamo andati a rappresentare la regione Marche al MEI di Faenza nel 2010, abbiamo fatto dei concerti in Italia e all’estero (Inghilterra, Estonia, Lituania, Slovenia) e, senza allungare troppo la risposta, eccoci qui!

Il vostro ultimo album Contaminations è uscito da oltre due anni. Ormai il tempo è più che sufficiente per trarne un bilancio davvero approfondito: quali sono stati i feedback che avete ricevuto dal pubblico, e quali invece dalla critica di settore?
Luca:Il nostro pubblico si è mostrato sin da subito molto interessato e compiaciuto. Abbiamo un pubblico ristretto ma accanito, tutto sommato, che ha amato molto il disco, alcuni si sono accorti che c’erano meno assoli, che le atmosfere erano un po’ diverse dai dischi precedenti e poi ognuna delle persone che ci segue ha il suo disco preferito e le sue canzoni preferite. Effettivamente su “Contaminations” ci sono meno assoli che negli altri e le atmosfere dei nostri dischi sono sostanzialmente sempre nostre, ma tutte con sfumature diverse, con accenti differenti. Cosa del tutto naturale per un gruppo che cresce e studia ma affatto scontata soprattutto ai nostri giorni in cui si sentono copia-incolla di tantissimi dischi, le band hanno paura di rinnovarsi o spesso non ne hanno le capacità o la voglia. Mi vengono in mente le parole di Kurt Cobain in risposta ad una domanda di un giornalista di Rolling Stone che gli chiedeva cosa sarebbe successo secondo lui ai Nirvana, vedendo che (Kurt) non aveva intenzione di riscrivere lo stesso stile di canzoni che lo avevano portato al successo, ipotizzando anche che i Nirvana stessi potessero un giorno non esistere più. Cobain rispose, quoto le esatte parole:
“È quello che ti ripeto dall’inizio (di questa intervista). Siamo arrivati al punto in cui le cose cominciano a farsi ripetitive. Non credo che il gruppo durerà più di un altro paio di album, a meno che non ci mettiamo a sperimentare seriamente. Non voglio fare uscire un altro disco uguale agli ultimi tre. “Grunge” è un termine ingombrante quanto “new wave”. Non ne esci. E ormai è superato. Bisogna correre dei rischi, sperare di incrociare i gusti di un pubblico completamente diverso rispetto a prima, oppure che lo stesso pubblico di prima cresca insieme a te.”
Io credo che quello spirito di rinnovamento e di ricerca, oltre che di sfida ai gusti del pubblico e a ciò che la gente vuole sentirti fare, sia una delle cose più preziose che un artista possa coltivare in se stesso. È sempre molto rischioso e rende la propria vita molto combattuta, perché la ricerca sincera dentro se stessi e nelle arti è sempre un percorso turbolento. Poi l’intervistatore gli chiedeva cosa avrebbe fatto se alla gente non fosse più piaciuto quello che faceva e lui rispose “Per me possono pure andare affanculo”. È una risposta estrema per un discorso estremo: la necessità e la capacità di cambiare. 
Per quanto riguarda la “critica” è stata tutta molto buona, a volte eccellente. Però ci siamo resi conto da anni che ciò che dicono le webzine o i magazine poi non spostano veramente le cose nella realtà. Mi spiego meglio, le buone recensioni fanno piacere quando arrivano e sono un ottimo biglietto da visita per tutto e tutti però poi non si trovano, grazie a quelle, più concerti o contratti interessanti con label o agenzie. Noi siamo dieci anni che abbiamo sostanzialmente una generale acclamazione della critica, qualcuno all’estero ci ha definitivi come una delle poche interessanti realtà progressive degli ultimi dieci anni nel mondo, per esempio. Io non lo so se lo siamo stati e lo siamo e non sta a me dirlo, anche perché vorrebbe dire avere una visione dei gruppi del mondo degli ultimi dieci anni smisurata che ovviamente non ho, ma ciò che voglio dire è che anche le più belle e migliori critiche nazionali e internazionali non riescono a spostare di un millimetro la problematica situazione in cui si trovano le band metal che si occupano di alternative e progressive, sia in Italia (soprattutto) che all’estero.

La cosa che più spicca nell’album, come ho scritto nella recensione, è un sound contaminato e sfaccettato, molto più originale della media del progressive metal attuale. Avete lavorato molto per rendere il vostro suono personale, oppure vi è venuto naturale?
Luca:“Contaminations” è uscito nel 2014 e noi suoniamo insieme, volendo escludere per un attimo l’arrivo del nostro cantante Paolo, dal 2004 circa. Forse la migliore risposta è che ci è uscito naturale dopo più di 10 anni di lavoro continuo e senza soste! C’è da dire che siamo sempre stati tutti molto attivi nella nostra formazione e crescita musicale. Io ho un diploma di Conservatorio vecchio ordinamento in chitarra e un biennio di II livello a indirizzo interpretativo/compositivo sempre in chitarra, con diverse esperienze all’estero sia come studente che come insegnante e concertista; il nostro tastierista Stefano Carloni è diplomato al CPM di Milano in blues e jazz, in più ora si è laureato in composizione presso il Conservatorio di Cesena; il nostro batterista Michele Baldi ha studiato tanti anni batteria e ha suonato anche le percussioni in diverse bande ed ensemble; Diego Brocani si sta laureando in contrabbasso in Conservatorio e Paolo ha sempre avuto tante e variegate esperienze nel mondo del canto. Siamo in movimento e necessariamente la musica dei nostri dischi non potevano che essere così… contaminata e in movimento continuo.

Un’altra vostra particolarità è che alcune vostre canzoni sono cantate, in totale o in parte, in Italiano, una scelta che solo pochi gruppi progressive metal nostrani hanno adottato. Da dove nasce questa particolare decisione?
Luca: È una mia decisione, che scrivo anche tutti i testi, che nasce tanti anni fa, sin dal primo disco che abbiamo fatto. In passato (secoli) la lingua italiana era considerata l’unica che poteva essere adottata per il canto. Era un retaggio estetico, molto forte, per esempio, durante l’epoca di Mozart, tanto che quando fece le sue opere in tedesco per la prima volta, fu criticato per la scelta della forma in Singspiel che presupponeva l’uso del tedesco ovviamente e parti non cantate ma solo parlate. La critica fu una sorta di “Bello, però peccato che sia in tedesco…”. In quel tentativo di Mozart lo storico della musica Quirino Principe scova il germe, non meditato, di tutto quel movimento di compositori tedeschi, successivi a Mozart, nella Germania che si stava formando, di rifiutare l’uso dell’italiano in favore dell’uso della loro lingua madre tedesca. Così nacque una forte scuola d’opera (o simil tale) in tedesco. Da ricordare in questo processo di affermazione del tedesco e della cultura nordica, Carl Maria von Weber che con il suo Der Freischütz influenzò tutto lo sviluppo della musica Romantica tedesca. Fra i giovani influenzati da tale opera c’era anche Richard Wagner che poi portò alle massime vette l’uso del tedesco come lingua nell’opera di derivazione tedesca, inventando anche un nuovo mondo, riassumibile con le sue parole Wort-Ton-Drama (Parola-Musica-Scena, l’opera d’arte totale). Preso da questi pensieri mi sono chiesto perché non si poteva fare un bel metal con l’uso dell’italiano e non dell’inglese, così, piano piano, umilmente, abbiamo provato e devo dire che è stato un gesto molto apprezzato, paradossalmente, più all’estero che in Italia. Almeno così mi è parso leggendo articoli e recensioni…  

Come ho sottolineato sempre nella recensione, i miei pezzi preferiti di Contaminations sono The Shades, My White Star e After the End. Vuoi raccontarci qualcosa di più a proposito di questi tre brani?
Luca: Con piacere. The Shades è un brano che in realtà scrivemmo tanti anni fa, praticamente negli stessi anni che incidemmo il nostro primo disco, nel 2005. Rimase fuori da quel disco perché non era in linea, per quanto riguarda i contenuti del testo, con gli altri brani scelti per “Nefesh”, poi per un motivo o per un altro rimase fuori anche da “Shades and Lights” e infine i suoi temi erano invece perfetti per “Contaminations” per cui gli abbiamo dato una piccolissima ristuccata e lo abbiamo registrato. Di solito per alcuni anni ci abbiamo chiuso i nostri concerti live.
My White Star è il terzo brano della prima trilogia che ho ideato, presente in Contaminations, dove lingua, testi e contenuti musicali seguono un preciso progetto e My White Star è la punta di diamante, in un certo senso, scelta anche per essere il singolo dell’intero disco. 

After the End è stato il brano pensato appositamente per chiudere l’intero disco e la voce bianca del bambino che si sente nella parte finale del brano è quella di Francesco Ceccarelli, lo abbiamo fatto cantare negli ultimi mesi prima del cambio della voce. In questo brano ho voluto mettere una parte intermedia di sola tastiera che suona una progressione “dissonante” per fare da ponte, portando il testo da un livello di narrazione dei fatti di una guerra a una narrazione diretta da parte di un soldato caduto in quella stessa guerra presentata prima. È come un percorso spirituale che fa connettere con lo spirito dei morti in quella battaglia narrata poc’anzi nel brano. Tutto il pezzo in generale vuole, in qualche modo, affermare l’inutilità del perdere la vita in una guerra e l’inganno che c’è dietro ai “principi etici” che ne vogliono spesso giustificare la necessità. I morti, da morti, si rendono conto di aver perso tutto per niente, poiché perdendo la vita la prospettiva d’osservazione e di calibrazione degli ideali cambia totalmente. 
Domanda classica da intervista: quali sono le vostre influenze principali?
Luca: E’ sempre una domanda difficilissima a cui rispondere. Provo a fare un veloce excursus personale. Il barocco (su tutti ovviamente J.S.Bach su cui ho anche scritto la mia tesi del biennio), la musica del romanticismo tedesco, poi sono estremamente interessato alla musica dalla seconda scuola di Vienna (Arnold Schoenberg e i suoi allievi Alban Berg e Anton Webern) in poi sino alle sperimentazioni elettroniche, il blues, poco l’hard rock e abbastanza il metal. Sono un po’ cresciuto anche fra quell’ondata difficilmente definibile di band come Korn, Deftones, Pantera, SOAD, Slayer, Slipknot…e poi tanti altri… One Minute Silence, Gamma Ray, Death… Adoro Gary Moore, un grande musicista “di pancia”, niente “giri di parole”, dritto al punto con veemenza e passione! Ma sto lasciando fuori tantissimi cose…
Ad ogni modo gli altri ragazzi hanno tutti gusti e ascolti sulle orecchie molto diversi anche fra loro e che spaziano veramente su tutti i generi. 

Altra domanda per me solita: ci sono musicisti che amate, o addirittura che riescono a influenzarvi, che però a livello stilistico sono lontani dal mondo del progressive metal?
Luca: Si, come dicevo prima, sia io che gli altri abbiamo sostanzialmente radici musicali diverse da quelle del progressive metal nel senso stretto del genere, sia da un punto di vista di formazione che di ascolti. Anche da un punto di vista estetico ho delle influenze che derivano da mondi abbastanza diversi. Ma in fondo, come diceva uno che non mi ricordo chi fosse, la musica si divide in due grandi categorie: quella fatta bene e quella fatta male!

Per la mia esperienza, in Italia il prog metal puro è uno dei generi meno amati in assoluto. A parte i Dream Theater e pochissimi altri, il pubblico metal italiano sembra più affezionato all’heavy classico oppure ai generi più estremi. Qual è la vostra esperienza personale a tal proposito? E in generale, qual è secondo te lo status del progressive metal in Italia?
Luca: Anche secondo me il prog/alternative metal in Italia non ha sostanzialmente seguito, o pochissimo se relazionato ai sostenitori dell’heavy classico. Anche noi non siamo mai riusciti a far breccia nei cuori dei più perché la nostra musica viene definita “complessa”. In una recensione mettevano come punto negativo il fatto che non si potesse ascoltare il nostro disco mentre si fa altro (come fare le pulizie o lavare i piatti o guidare la macchina, scrisse il tizio) ma bisogna dedicare tempo alla nostra musica per capirla e goderne sino in fondo. Anche se invece secondo me può essere tranquillamente ascoltata a diversi livelli di consapevolezza e goderne lo stesso. Ovviamente avere dei brani che non sono di facile ascolto come il pop o l’heavy classico è commercialmente un punto decisamente a nostro sfavore e ne subiamo le conseguenze sotto tutti i punti di vista, ma sotto un punto di vista artistico è un vanto poter dire di aver fatto un disco che lo si scopre nel tempo e non si consuma in un solo ascolto. La superficialità dà risultati immediati e finisce, come il fuoco di carta, mentre la profondità (più o meno efficace) ha bisogno di tempo e perlopiù non viene capita e apprezzata. Sapevamo da sempre che la nostra musica non era rock o heavy, ma per noi è altrettanto vero che non è così complessa come in tanti dicono e hanno detto. La dimostrazione di questo sono i tanti sostenitori che abbiamo che di metal non ascoltano niente e prima di noi ascoltavano solo pop o musica da discoteca (!) ma che poi, un po’ attirati da amici, un po’ dall’uso dell’italiano, hanno iniziato ad ascoltarci e ora stanno scoprendo mondi sonori su un genere che non immaginavano potesse rapirli. Basta superare un primo ostacolo di genere e di richiesta di un minimo di attenzione. 

Cosa si devono aspettare i fan dai Nefesh nel prossimo futuro?
Luca: Sicuramente un disco, poi per il resto vedremo strada facendo.

L’ultima domanda è sempre a piacere. A voi il compito di concludere l’intervista come meglio preferite. 
Luca: Per la serie: “fatti una domanda e datti una risposta”. 
Sono sinceramente preoccupato per la direzione generale e globale che sta prendendo ormai da anni il metal. Trovo una generale sterilità stilistica ed emotiva accompagnata da un’assenza di profondità nelle proposte acclamate che ho sentito. Da una parte mi sembra come se il metal si fosse “pop-izzato” per sopravvivere. Come se chi fa metal, chi lo produce, abbia iniziato a pensare al mercato, al commercio, abbassando a volte anche di proposito il tipo di proposta musicale fatta per incontrare un più facile favore del pubblico. Mi sembra di sentire un deciso abbassamento di qualità musicale che spesso nemmeno una maggiore tecnica esecutiva vocale e/o strumentale è in grado di colmare. In generale aumentano a dismisura le persone che suonano, aumenta la tecnica strumentale/vocale di chi fa musica e diminuiscono i contenuti. Tanti copia e incolla, anche nei tipi di suoni. Siamo invasi, inondati, soffocati da nuovi dischi di nuovi gruppi, milioni di dischi, di brani “originali”, che nessuno però ascolta. Come con i libri, siamo invasi da libri che nessuno legge, ma tutti vogliono scrivere il proprio libro anche se non hanno niente d’interessante da dire. A volte anche chi avrebbe qualcosa da dire non la dice perché pensa “se faccio questa musica poi non me la compra nessuno e alla gente non piace”. Il metal sta morendo ormai da anni e sembra un processo irreversibile poiché irreversibile sembra la tendenza dei gruppi, e di tutti quelli che mangiano sul metal, al non voler in nessuno modo cercare di proporre seriamente, investendo, delle novità. Il mercato che prima era spartito da poche giganti label oggi è spartito fra miliardi di label e i gruppi, che prima erano selezionati da scout competenti che cercavano la qualità e il talento nei gruppi, oggi si moltiplicano come cellule malate facendo ammalare tutto l’organismo. Mi sembra che siamo oberati da musica che non abbia nulla da dire ma “che funziona”. Si fa fatica oggi a riconoscere un gruppo dopo qualche secondo che inizia un brano, suonano tutti simili seguendo i filoni del genere, a volte si fa fatica a capire persino se un pezzo sia finito e ne sia iniziato un altro dello stesso gruppo perché suonano tutti uguali pure quelli di uno stesso gruppo, quasi. Sono uguali i suoni scelti spesso perché i produttori ti dicono “Se scegli questo suono il disco funziona al 90%, se ne cerchi uno tuo può funzionare da dio al 10% o essere un flop pazzesco perché la gente non riconosce gli stessi suoni a cui si è abituata e si aspetta”. 
Kierkegaard nella prefazione del suo libro “Il concetto dell’angoscia” scrive che tutti quelli che vogliono scrivere un libro su un determinato argomento dovrebbero prima cercare e leggere tutti i libri che sono stati scritti su quel determinato argomento per poi valutare se hanno qualcosa di nuovo da dire o meno. Se non ce l’hanno è bene non scrivere il libro. Interessante non credi?
A volte basterebbe investire un po’ di euro nella formazione per riuscire ad essere più preparati anche nella propria proposta, per renderla più “efficiente” e consapevole anche riguardo a cosa è avvenuto prima di noi, di qualità ovviamente. 
Ciò che voglio dire è che se il metal sta morendo e in parte è già in coma irreversibile penso che una buona percentuale di responsabilità sia anche di tutti noi, band, e label più o meno grandi. Solo con una nuova spinta al rinnovamento si potrà portare il metal ad una nuova primavera e vita, ma il cambiamento dovrebbe essere di consapevolezza generale a diversi strati di chi opera in questo genere (band, label, promoters, management, locali…), sino agli ascoltatori che dovrebbero capire che il potere vero per il cambiamento e la rinascita di questo genere ce l’hanno loro: andare ai concerti non solo delle grandi band preferite ma soprattutto delle piccole che fanno musica propria e l’acquisto diretto della musica dalle band o label che le curano. Ma per fare questo ci vuole impegno da parte degli ascoltatori, preparazione, passione e azione, non sempre facili da applicare. D’altronde queste sono anche le caratteristiche che servono per la libertà individuale e collettiva… consapevolezza.
Ho toccato parecchi temi e parecchi sono gli spunti per riflettere anche per me, prima di tutti. Detto questo vorrei anche che fosse chiaro che non sto dicendo che i Nefesh siano l’unico gruppo degno di ascolto e il resto sia letame. Anzi, io personalmente mi faccio continuamente queste domande dinnanzi alla mia musica e non sono convinto di tutto ciò che ne viene fuori, anche se il più delle cose sono perlomeno passate sotto un setaccio di autocritica abbastanza duro direi. Ma per dare valore ai pensieri scritti qui sopra e togliere ogni dubbio di autocelebrazione invito tutti a non ascoltare i Nefesh, a non pensare che io sia un membro di un gruppo che fa questo genere. Fate finta che io sia un vostro amico che vi parla di queste cose dietro a una birra. 
Detto questo ringrazio Heavy Metal Heaven per la bella recensione di “Contaminations” e per questo spazio dedicatoci.
Per i curiosi lascio la nostra pagina Facebook la nostra pagina Soundcloud.

Intervista a cura di Mattia

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